Una delle prime cose che mi è stata chiara nel percorso di formazione musicoterapica è che non è semplice dare una definizione unica e valida per tutti, che chiarisca fino in fondo cosa si intende per musicoterapia. Mi sono, comunque, tuffata nel groviglio di opinioni varie e ho cercato di elaborarealcune considerazioni che fossero sensate, almeno per me. Peraltro, il termine “musicoterapia” presta il fianco ad opinioni fortemente critiche. Effettivamente, oggi con troppa facilità e pressappochismo si parla di musicoterapia, sia quando c’è di mezzo una persona disabile, che in qualche modo si accosta alla musica, sia quando c’è di mezzo un semplice e innocuo mal di testa! Il rischio di cadere nel banale o nel ridicolo si corre senz’altro se non si procede con cautela, dando la giusta collocazione alle esperienze in cui esiste un ruolo dell’elemento musica. Ricci Bitti, nel presentare una pubblicazione[1], mette in evidenza che ci sono orientamenti teorici di riferimento vari e che diversi sono anche i modelli operativi, per cui cambiano di volta in volta il senso del ruolo del terapeuta, il concetto di relazione tra terapeuta e paziente, la direzione che può prendere l’elemento sonoro/musicale a seconda del tipo di approccio terapeutico. Se si guarda alla musicoterapia sotto il profilo descrittivo in un’ottica storica la si può definire “un multiforme processo in cui essa stessa è stata concepita e messa in pratica in base a molte e differenti esigenze e concezioni.”[2] La musicoterapia nasce ed opera in un contesto culturale in cui convergono discipline tra loro diverse come la musicologia, l’antropologia, la filosofia, la psicologia, la psichiatria.Ciò comporta, perciò, la possibilità per chi opera in ambito musicoterapico di scegliere un approccio piuttosto che un altro, a seconda della propria formazione d’origine.In questo caso dare una definizione di cosa è Musicoterapia significa tracciare dei confini ben precisi, ossia specificare quale aspetto o quale approccio si vuole considerare. Le varie definizioni che ci sono in materia sono sì descrizione obiettiva della musicoterapia, ma anche espressione del pensiero di chi le formula. Dietro ogni definizione di questa o quella associazione, di questo o quel Paese, di questo o quello studioso ci sono particolari punti di vista, per cui grazie ad un’analisi attenta e rigorosa si possono rintracciare le differenze relative alle diverse forme di pensiero.[3] K. Bruscia mette in evidenza come la complessità delle componenti “musica” da una parte e “terapia” dall’altra non faciliti la formulazione di una definizione che sia realmente oggettiva, perché già quando si parla di musica e di terapia i punti di vista sono numerosi e variamente articolati. Nel concetto di musica così come lo ha elaborato Bruscia : «l’arte dell’organizzazione temporale dei suoni e delle sue componenti fisiche ed esperienziali, allo scopo di creare e interpretare forme espressive che rinforzino, elaborino, diano significato all’esperienza della vita umana» sono rintracciabili prospettive che fanno capo a discipline diverse quali la fisica, l’antropologia, la sociologia, la psicologia, la filosofia. Di conseguenza il musicoterapista, nello svolgere la sua professione, deve tener conto delle varie prospettive disciplinari, ma deve in qualche modo andare oltre secondo un’ottica gestaltica, grazie alla connotazione multidisciplinare, interdisciplinare e transdisciplinare della metodologia musicoterapica. In realtà, resta fondamentale la sua posizione nei confronti della musica, ma la definizione e l’utilizzo di quest’ultima all’interno della pratica musicoterapica avrà nell’elemento terapia l’indicatore base per la definizione di musica all’interno della pratica musicoterapica. Questo punto di vista mette in evidenza che l’elemento musicale nel contesto musicoterapico rimanda ad un concetto molto ampio. Il termine musica indica, in questo caso, “il linguaggio sonoro, ritmico e verbale, il movimento, l’uso del corpo, l’uso di melodie vocali e strumentali e qualsiasi tipo di suono, vibrazione ed energia relazionale presenti all’interno dello spazio adibito per fare musicoterapia”[4]Per Bruscia anche il concetto di terapia si presta a varie considerazioni, perché non è semplice separarlo da altri aspetti comunemente ritenuti terapeutici quali l’educazione, lo sviluppo, la crescita, la cura e quant’altro sia possibile pensare in questa direzione. La parola terapia richiama il concetto di cura, assistenza, trattamento, tutti elementi sicuramente possibili in un contesto terapeutico, ma anche molto legati ad alcuni aspetti specifici della terapia: il paziente, il terapista, gli obiettivi e il processo[5]. Chi è il paziente? Generalmente si tratta di una persona cha ha bisogno di aiuto perché è malata, la qual cosa comporta spesso nella nostra società, un’etichettatura sgradevole. Molte volte i professionisti della salute provano ad eliminare questa specie di marchio utilizzando nuovi termini per le persone che hanno bisogno di cure. Così si sente parlare di “clienti”, di “persone che cercano aiuto”, di “studenti”, di “ospiti”. Ma ciò che conta, al di là dei termini, è chiedersi con onestà : « Di cosa hanno realmente bisogno queste persone che chiedono aiuto? Qual è il loro stato di salute? »La figura del terapista o terapeuta svolge un ruolo delicato all’ interno della pratica musicoterapica. Sono tante le domande che sorgono spontanee riguardo alla sua funzione, perché è legittimo pensare che essendo la musica un agente particolarmente attivo nel processo terapeutico possa essa stessa rivestire in alcuni casi il ruolo proprio del terapeuta. Ciò comporterebbe che il paziente entri in rapporto direttamente con la musica a prescindere dalla presenza del musicoterapista. Allora la musica diventa l’unico agente attivo in grado di offrire il rimedio curativo. Se, invece, il musicoterapista utilizza la musica alla stregua di altri strumenti utili al processo terapeutico le cose cambiano nel senso che è lui l’agente attivo nel processo musicoterapico. Altro elemento non trascurabile è la relazione che il musicoterapista riesce a stabilire col paziente: entrano in gioco, così, la sua competenza, la sua professionalità e la sua abilità.Proprio per il fatto che la musicoterapia si rivolge ad una grande varietà di persone con problematiche relative a settori ampi e diversi, può avere obiettivi molteplici. Si può perciò parlare di scopi educativi, riabilitativi e terapeutici. Dalla varietà di obiettivi di cui sopra deriva anche un’ampia varietà descrittiva del processo musicoterapico. Bruscia propone all’attenzione di tutti la parte iniziale di tante definizioni che si riferiscono all’ uso della musica o alla sua applicazione. Ne cito alcune:
“funzionale” (Alley 1979)
“controllata” (Alvin 1975, Bang 1986, Munro &
Mount 1978)
“propositiva” (Responsabili della musicoterapia della
Pennsylvania Sudorientale)
“prescritta” (Peters 1987)
“pianificata” (AMTA1984, Istituto Sudafricano 1984,
Bright 1981)
“sistematica” (NAMT 1980)
“integrata” (Schmolz 1984)
Da alcuni la musicoterapia viene descritta come un
“processo” creativo, interpersonale, finalizzato. C’è chi si sforza di
quantificare il contributo della musica o del terapeuta al processo stesso.
Benenzon vede il suono, la musica e il movimento causa di stati regressivanti,
che sono all’origine dell’apertura di nuovi canali di comunicazione. Boxill
considera la musica agente di cambiamento, funzionale alla relazione terapeutica,
alla crescita e allo sviluppo della persona.Bruscia parla di processo
interpersonale in cui le esperienze musicali e le relazioni che ne scaturiscono
si trasformano in forze dinamiche funzionali al cambiamento. Potrei elencare
tante altre opinioni relative al processo musicoterapico. La cosa più evidente
che emerge è che c’è molta differenza tra le une e le altre, si tratta di una
differenza determinata dalle teorie cui fanno capo i vari terapeuti, le più
diffuse delle quali sono quelle comportamentali, educative, psicoanalitiche,
umanistico-esistenziali e olistiche[6]. Partendo,
quindi, da queste prospettive teoretiche si può pensare ad una definizione di
musicoterapia che tenga conto di alcuni fattori importanti quali:
- lo stato di salute o i bisogni dei destinatari del trattamento
- i ruoli e le funzioni sia della musica sia del terapista
- le qualifiche e le responsabilità del terapista
- la natura dei rapporti tra paziente, musica e terapista
- gli scopi della terapia
- una descrizione del processo terapeutico che definisca l’intervento e il cambiamento
Francesca S.
[1][1] Wigram,
Saperston,West (a cura di), Ed.
italiana Manuale di Arte eScienza della
Musicoterapia, ISMEZ, Roma, 1997.
[2][2]
G.Gaggero, Il problema del significato in
musicoterapia, in Musica εt Terapia n. 11, Gennaio
2005,Cosmopolis, Torino.
[4][4] Benenzon, Casiglio,
D’Ulisse, Musicoterapia e professione tra teoria e pratica, Il Minotauro, Roma, 2005.
[5][5] op. cit.
[6][6] op. cit.
QUALE SPAZIO PER LA MUSICOTERAPIA A SCUOLA?
La scuola è per
eccellenza luogo di formazione oltre che di apprendimento. Se si prova a
guardare un po’ più da vicino il rapporto docente/alunno non si può non sottolineare
l’importanza dell’approccio empatico, tipico delle relazioni d’aiuto. E quella
che può stabilirsi tra gli insegnanti e i loro allievi è anche una relazione d’aiuto
efficace per la sua valenza comunicativo-relazionale unica nel suo genere. Se
vogliamo riconoscere alla pratica musicoterapica i connotati di relazione d’aiuto
non possiamo non coglierne anche la valenza formativa. Certamente, in atto,
nella scuola coesistono atteggiamenti che vanno in direzioni opposte. Se da una
parte è evidente la volontà di introdurre o, forse, applicare principi
pedagogici diversi da quelli finora presi in considerazione, dall’altra è pur
vero che permangono forze insistenti per conservare la funzione docente secondo
il vecchio modello, ormai anacronistico.Per molti anni
si è dato spazio alla quantità piuttosto che alla qualità. I docenti,
preoccupati delle “carte” e comunque forzatamente il più delle volte, sono
stati attentissimi nel compilare estesi “piani di lavoro” mai realizzati nella
realtà, senza guardare più di tanto agli effettivi processi d’apprendimento. La
scuola si è per molto tempo occupata del prodotto finito senza adoperarsi
granché per gli innumerevoli casi in cui i ragazzi non hanno raggiunto i
risultati previsti.
Allora, quale
posto per un approccio musicoterapico in un contesto simile?
Se si vuole, se
alla base c’è un vero interesse e, osando un po’, se c’è amore per quel che si
fa, lo spazio c’è ed è anche necessario che ci sia.
Facendo una
rapida disamina della realtà che i bambini e i ragazzi vivono ci si accorge che
le opportunità educative, a causa dell’eccesso di scolasticizzazione di tutte
le esperienze, sono andate in “anoressia” riducendo così l’arco della gratuità
a vantaggio della funzionalità e dell’utile: “si tratta di un’ulteriore
espansione delle logiche e dei principi della produttività e del rendimento”[1].
In questo
contesto la pratica musicoterapica contribuirebbe a creare una scuola più
attenta alle problematiche relazionali degli alunni e al loro benessere
psicologico e potrebbe rivelarsi significativa nell’individuazione degli
aspetti emotivi che pur caratterizzano la vita scolastica. Naturalmente è
fondamentale decidere quale strada si voglia percorrere: se quella di una
formazione parziale che coincide con lo sviluppo delle capacità d’apprendimento
o quella che mira alla maturazione della persona attraverso l’acquisizione di
vari linguaggi senza che uno prevalga sugli altri. In quest’ottica, allora, è
decisivo focalizzare l’attenzione non tanto su ciò che si fa quanto sul “come”
lo si fa. Perciò, se tra le finalità della scuola c’è, come tra l’altro in alcuni
passi dell’attuale Riforma abbiamo già visto, lo sviluppo delle capacità
relazionali, affettive, creative, certamente la musicoterapia può vantare
diritto di cittadinanza in un percorso formativo.
L'esperienza di un'insegnante di Musica che è anche musicoterapista
Insegnando da
parecchi anni ho avuto modo di conoscere diversi tipi di disagio, che mi hanno provocato in vari momenti difficoltà a
livello di coscienza professionale. Spesso ho incontrato tra i miei alunni
ragazzi diversamente abili con i
quali non sempre è stato semplice lavorare. Pur avendo capito abbastanza presto
che la musica è un ottimo mezzo per iniziare un rapporto significativo con gli
altri non mi è stato da subito chiaro il come ciò sia possibile. Da questo
punto di vista devo molto agli studi di musicoterapia perché mi hanno
confortata relativamente ad aspetti che avevo intuito senza, però, aver potuto
svilupparli, mancandomi le competenze necessarie. Gli anni di insegnamento mi
hanno convinta dell’inutilità di determinati approcci operati dalla classe
docente nei confronti dei ragazzi diversamente abili, che inevitabilmente
finiscono con l’avvilirsi a causa del non poter/saper fare ciò che viene loro
richiesto. Tra l’altro, nei casi sufficientemente gravi, si assiste al pietoso
spettacolo di parcheggio a scuola di ragazzi che in modo evidente non possono
fare quasi nulla di quel che si fa in una scuola. E allora che senso ha tutto
questo? Che senso ha aver lottato in Italia per l’inserimento dei ragazzi con
difficoltà nelle classi? A queste domande, che per anni ho rivolto a me stessa,
oggi riesco a dare una risposta sulla base anche dell’esperienza che ho fatto
nell’ambito del tirocinio. Se è un diritto di tutti andare a scuola quel che è
certo è che si deve fare il possibile perché tutti possano vivere l’esperienza
scolastica con dignità e soddisfazione. Esperienza scolastica non è solo o
fondamentalmente apprendere nozioni, ma è anche e soprattutto possibilità di
costruire relazioni. Vedo proprio nella relazione un punto di contatto
significativo tra Scuola e Musicoterapia. So bene che l’istituzione scolastica
è deputata all’Educazione e all’Apprendimento. Naturalmente bisogna mettersi
d’accordo sul significato dei termini. Capisco il punto di vista di chi afferma
che la scuola non è sede in cui si fa terapia; esistono, tuttavia, alcune
dimensioni non trascurabili alle quali la musicoterapia può agganciarsi e cioè
la riabilitazione, la prevenzione, l’integrazione e l’educazione. Certamente in
Italia la musicoterapia agli inizi della sua comparsa, intorno agli anni ’70,
ha trovato largo spazio nel settore educativo e questo è un fatto
inconfutabile. Probabilmente le perplessità al riguardo sono giustificabili nel
momento in cui chi ha operato trattamenti musicoterapici all’interno della
scuola non aveva le competenze necessarie ed ha abusato della buona fede
altrui. Non di rado incontro colleghi di musica, che affermano di fare
musicoterapia se in classe hanno ragazzi con disagio psico/fisico ed esistono
molti personaggi discutibili che parlano di musicoterapia senza saper dove stia
di casa. In questi casi sì che non ha senso parlare di musicoterapia a scuola,
ma la stessa cosa vale per qualunque contesto se non si possiedono i requisiti
necessari per poter operare. Un esempio su tutti può esser costituito, al
riguardo, dall’attività teatrale, oggi diffusa nella scuola su scala molto
ampia, ma assai raramente condotta da persone competenti e in grado di ottenere
risultati significativi sul piano artistico e relazionale. Non sono d’accordo
dunque con chi sostiene che non sia necessaria la presenza di “una figura
professionale formata in senso strettamente musicoterapeutico che eserciti la
propria attività in momenti e tempi staccati dall’ampio contesto educativo in
cui il bambino è inserito e vive”[2].
Non
capisco perché non si possa prevedere questo tipo di figura nelle scuole in
maniera sufficientemente stabile, visto che attualmente per i bambini/ragazzi
cosiddetti normodotati vengono previste a scuola innumerevoli attività che
esulano dalle competenze specifiche del singolo insegnante, per cui è
necessaria la presenza di persone specializzate esterne alla scuola. Credo che
la cosa avrebbe facile soluzione nel momento in cui ad operare trattamenti
musicoterapici fossero persone professionalmente serie e, quindi, affidabili.
Se per musicoterapia si intende che facciamo trascorrere allegramente un paio
d’ore a settimana ai vari alunni, certo che non è necessario far riferimento a
figure professionali formate in senso strettamente musicoterapeutico! La mia
esperienza all’interno del tirocinio mi ha aiutato ad approfondire alcuni
aspetti relativi al senso e all’utilità di un intervento musicoterapico a
scuola.
[1] P. Cattaneo, Prefazione, in Musicoterapia nella ,fascia scolare della
preadolescenza, Franco Angeli,
Milano, 1996.
[2] G.L. Zucchini, Musica e handicap, Editrice La Scuola, Brescia 1989.
Musicalità e linguaggio
Come
si forma la musicalità nell’essere umano? Quanto è affidato al caso e quanto,
invece, è frutto di un percorso mirato? Può esistere un’identità sonora per ciascuno di noi?
Cercare
e trovare una risposta significativa a queste domande non può prescindere dall’esperienza
uditiva che tutti noi facciamo ancor prima di nascere.
Secondo
Trevarthen temporalizzazione, espressione emotiva ed empatia intersoggettiva
sono alla base della musicalità. Sono i segni che spingono il piccolo ad
accordare i propri movimenti alla musicalità delle espressioni materne fatte sì
di suoni, ma anche di stimoli sensoriali multimodali: “gli tocca le mani, la faccia, il corpo con cura ritmata e tiene
l’infante stretto a sé cosicché essi possono condividere l’attenzione, gioire
l’uno dell’altro. Il suo parlato è una
specie di canto…”[1]
I
vari studi condotti in questo settore mettono in luce un comportamento
interessante. Si è osservato che il bambino dall’età di 4 mesi riesce ad
interagire con un altro nel gioco musicale in modo piuttosto attivo. Questo
tipo di scambio comunicativo, fatto di movimento, ritmo, melodia diventa la
base su cui si struttura la capacità linguistica del bambino. Si tratta di un
linguaggio impregnato di musicalità che va ad innestarsi nei movimenti corporei
e gestuali che accompagnano l’espressione verbale sia della madre che del
bambino. Nasce un idioma che viene definito motherese
in cui la curva melodica, il tempo, la metrica, la ripetitività sono elementi
comuni a culture e lingue diverse. Vari studiosi, tra i quali D.Stern, in un
primo tempo si sono soffermati sull’ aspetto semantico e sintattico del
motherese, ma successivamente si sono occupati delle strutture prosodiche.
Caratteristiche fondamentali, in questo senso, sono un registro più acuto della
voce, profili intonativi piuttosto diversi da quelli di una conversazione fra
adulti, ampie estensioni di registro all’ interno di una stessa unità vocale. A
detta degli studiosi sono varie le funzioni svolte dagli elementi prosodici del
motherese e interessano il piano
attentivo, quello sociale/affettivo e quello linguistico. La madre utilizza
intonazioni estese e variate per ottenere l’attenzione del bambino, mantenerla
durante l’interazione ed anche per avere una risposta positiva, quale può
essere il suo sorriso. Probabilmente le esagerazioni melodiche del motherese offrono elementi per leggere
lo stato emotivo della madre, soprattutto gli affetti positivi, che anche nell’
interazione tra adulti sono espressi da un registro più acuto e dal profilo
melodico più netto. Tra l’altro gli aspetti peculiari del motherese favoriscono il riconoscimento della voce materna, in
quanto i profili intonativi per forma e frequenza sono particolari e variano da
persona a persona. Anche l’elemento ritmico svolge un ruolo primario nel
passare l’informazione sul linguaggio e dare una connotazione temporale
precisa, all’interno della quale il bambino può orientarsi e sviluppare le
prime esperienze linguistiche. Sulla scorta di dati desunti da esperimenti
effettuati nell’arco dei primi sei mesi di vita si può ipotizzare che “i profili intonativi svolgano un ruolo
determinante nelle preferenze uditive del bambino in quanto presentano
caratteristiche sonore più consone con le loro capacità percettive ed attentive
e che vi sia una sorta di predisposizione innata per rispondere selettivamente
ai particolari lineamenti del linguaggio diretto ai bambini.” [2] Dal
canto suo il bambino con i suoi comportamenti vocali sembra esprimere
intenzioni comunicative, anche se non sempre l’espressione vocale è preferita
ad altre fra le varie modalità comunicative. Dumaurier parla di vocali
“sociali” e vocali “private”. Queste ultime esprimono un esercizio di
produzione e di esplorazione di sensazioni tattili, cinestesiche, acustiche. Le
altre si configurano in un contesto di incoraggiamento reciproco, fra adulto e
neonato, all’ uso di comportamenti vocali. A questo proposito qualcuno sostiene
che certe vocalizzazioni possono fondatamente esser considerate “un mezzo di comunicazione preverbale
attraverso cui il bambino informa il suo ambiente circa l’andamento del suo
comportamento adattativo.”[3]
Emerge con chiarezza da quanto
affermato che l’esperienza sonora è
fondamentale per l’adattamento di ogni essere umano che viene al mondo e lo
accompagna nel suo cammino.
[1] C. Trevarthen,
“Musicality and the intrinsic
cmotive pulse:evidence from human psychobiology and infant communication”, Liege European Society for the Cognitive
Sciences of Music, 1999.
[3]Papousek e Papousek, «Cure
materne e inizio dello sviluppo cognitivo…»,1984 in Schaffer H. R. (a cura di) 1984, L’ interazione madre-bambino: oltre la
teoria dell’ attaccamento, Angeli,
Milano, 1984.
La comunicazione sonoro-musicale, un filo invisibile che collega vita prenatale e vita neonatale
Partendo dalle domande poste al termine del precedente approfondimento "Alle origini dell'esperienza sonoro-musicale, potremmo dire che:
Il rapporto
uomo-suono va nella direzione dell’ esplorazione, conoscenza e relazione, tutti
aspetti che l’ esperienza sonora favorisce. Basti pensare che nel periodo
prenatale c’è un susseguirsi di scambi e adeguamenti reciproci, di variazioni
di stato e di alternanza di ritmi vitali tra la madre e il feto. La funzione sensoriale è molto importante in
questo periodo in quanto favorisce la maturazione del feto e l’ organizzazione
delle sue esperienze relazionali
precoci.[1] Quando
si parla di relazione nella vita prenatale ci si riferisce a qualcosa di natura
per lo più biologica e bioritmica. In quest’ ottica si può vedere la
corrispondenza fra l’attività onirica della madre e l’inibizione della
motricità nel feto oppure la correlazione fra il sonno materno e quello del
neonato nelle prime notti successive alla nascita.[2] La
particolare comunicazione sonora che si instaura nella vita intrauterina tra
madre e feto permane nel periodo neonatale attraverso gli elementi ritmici,
dinamici e intonativi, che peraltro influenzano sia la natura del rapporto
madre/bambino che quella del rapporto bambino/ambiente. Un elemento
interessante è dato dalla continuità che è possibile osservare dal punto di
vista maturativo e psicofisiologico tra il prima e il dopo, per cui appare
ovvio pensare ad una continuità nell’ambito specifico dell’ esperienza uditiva.
I criteri secondo cui è attendibile l’ idea di continuità sono relativi alla
familiarità e alla preferenza nei confronti della voce materna in particolare
ed anche alla somiglianza del tipo di risposte date sia dai nascituri che dai
neonati agli stimoli provenienti dalla lingua parlata e a precise intensità e
frequenze sonore.
Gli studi per
valutare l’effettiva esperienza sonora prenatale hanno preso in considerazione,
quindi, la preferenza accordata dal neonato a stimoli già vissuti nella vita intrauterina: il battito
cardiaco, la voce materna, fiabe, ninne nanne o sequenze musicali.Il bambino,
quando nasce, porta con sé nove mesi di esperienza che può influenzare la sua
vita presente e futura. Il periodo che va dal concepimento alla nascita viene,
ormai, ritenuto da diversi studiosi un
periodo determinante per lo sviluppo fisico e psichico di ogni bambino. Proprio
in questo periodo si creano le prime relazioni le cui implicazioni sono
rilevanti e le conseguenze si avvertono a lungo termine. Ciò comporta che non
si possono assolutamente trascurare i nove mesi della gravidanza. E a questo
proposito si può pensare all’ importante concetto di “ empreinte” che Lecanuet introduce in occasione di una tavola
rotonda organizzata intorno al tema “Ontogenesi e caratteristiche della
sensorialità fetale”, nel 1983 in Francia[3].
Si
sviluppa, così, fortemente un interesse per l’interazione madre/bambino
relativamente agli effetti di suoni/rumori durante la gestazione.Gli studi
condotti dall'etologa e ricercatrice francese Marie Claire Busnel, dimostrano
che durante la gestazione il bambino varia il proprio comportamento al variare
della situazione. Infatti il suo battito
cardiaco cambia a seconda della voce che gli proviene dall’ esterno, per cui,
se si tratta di quella della mamma, la preferisce ad altre e, addirittura,
mostra variazioni a seconda se ella si rivolge a lui oppure ad altri. La voce
materna assume le caratteristiche di uno strumento sonoro, che rappresenta la
continuità dell’ esperienza musicale e ritmica del periodo precedente e,
inoltre, favorisce il formarsi di una comunicazione preverbale tutta affidata
al suono.
[1] S. Bertolino, L’esperienza
sonora in epoca pre e neonatale, tratto
dai Quaderni della SIEM, Ricordi, Milano,1992.
[2] M.
Mancia(1980), Neurofisiologia e vita mentale, Zanichelli , Bologna, 1980.
Alle origini dell'esperienza sonoro-musicale
Ormai sono diversi gli studiosi che analizzano l’esperienza
sonoro/musicale che si fa prima ancora di nascere. È a conoscenza di tutti che
nella vita intrauterina il feto percepisce i suoni, sia quelli provenienti
dall’ esterno, sia quelli provenienti dall’ interno, prodotti dai suoi stessi
movimenti e dalla vita neurovegetativa della madre. Tramite il suono, dunque,
il feto inizia a conoscere il mondo e ne ha un ricordo tanto che, da neonato,
preferisce i suoni che ha già sperimentato durante la vita intrauterina, come
il battito cardiaco, le storie, le canzoni e le ninne nanne cantate dalla madre
in gravidanza.
È stato anche dimostrato che musiche fatte ascoltare
ripetutamente al feto venivano poi riconosciute dal neonato che dava segni di
gioia nel riascoltarle.
Questi dati confermano, quindi, che il primo sviluppo del
sistema nervoso avviene già nelle prime settimane di gravidanza, che gli
stimoli già allora vengono trasmessi al cervello, percepiti e depositati nella
memoria e che quindi il feto può memorizzare ed apprendere.
A proposito dell’importanza dell’esperienza sonora fetale per
lo sviluppo cognitivo e musicale del neonato, uno studio condotto da D.J.
Shether ha fornito risultati interessanti. Bambini tra i due e i cinque anni,
esposti nella vita prenatale ad una certa stimolazione musicale, sono in grado
di fare discorsi organizzati e articolati, sanno memorizzare canzoni lunghe e
cantano in modo espressivo. Altri bambini identificano i suoni e li ripetono in
modo creativo, altri ancora desiderano improvvisare canzoni proprie; molti
cantano a memoria un buon numero di canti, alcuni ricordano i nomi degli
strumenti e li suonano correttamente anche se li vedono a distanza di due-tre
mesi, altri ancora spesso suonano cantando. La musica prenatale, quindi,
stimola fortemente il loro sviluppo sia musicale che cognitivo.
Interessante è la posizione di A. Tomatis, il
quale sostiene che “… con la nascita si assiste ad un vero parto sonico.”[1] L’embrione,
già dal secondo mese di vita, è in grado di conservare traccia delle
informazioni a livello dei nuclei vestibolo-cocleari, per cui si avrebbe così
la formazione di una funzione mnemonica, che sarebbe potenziata a livello di
sistema nervoso contemporaneamente alla sua evoluzione, più tardiva rispetto a
quella dell’organo uditivo. Secondo Tomatis, perciò, durante la vita
intrauterina si instaura la più importante forma di contatto tra madre e
nascituro : “Una volta offerto l’utero
come nido, la madre nutre il feto in ogni maniera possibile. Soprattutto lo
nutre di suoni. Si rivela al feto attraverso tutti i rumori organici, viscerali
e specialmente mediante la sua voce. Il bambino è immerso in quest’ ambiente
sonoro. Dalla voce materna ricava tutta la sua sostanza affettiva.”[2]
Considerando le cose in quest’ ottica è chiaro che il bambino, quando nasce, ha
già sviluppato una discreta capacità percettiva a livello uditivo, cosa che gli
consente di vivere l’esperienza sonora del mondo in cui viene alla luce come
qualcosa di conosciuto.
Infatti la vita intrauterina
favorisce una prima dimensione relazionale del feto con il mondo esterno grazie
all’ utero che rappresenta non solo la possibilità di nutrire, ma anche di
veicolare la comunicazione sonora e tattile. Sempre secondo Tomatis l’udito è
l’organo di senso più importante nel fornire energia neuronale al cervello, che
così può svolgere al meglio le proprie funzioni.
Assodato perciò che esiste un’esperienza
uditiva prenatale significativa, quale peso questa esperienza può avere nel
motivare l’uomo ad accostarsi alla musica? Perché spesso sentiamo dire che la
musica per noi esseri umani è un fatto “naturale”? La ricerca pedagogica e
psicologica ha visto nella musica, d’ altronde, un potenziale per lo sviluppo
della persona. Gli studi fatti in questa direzione chiariscono che nel bimbo
molto piccolo rimangono le tracce dell’esperienza uditiva prenatale le quali
influiscono sulla qualità del rapporto con l’ambiente circostante in cui fa da
mediatrice la madre. Si può, abbastanza fondatamente, parlare di “esperienza
sonora” nel periodo prenatale, per cui è lecito supporre che il rapporto
uomo-musica sia molto stretto e forte sin dall’inizio.
Come si struttura, quindi, questo
rapporto con l’universo sonoro, una volta che veniamo al mondo? Quale influenza
può avere l’esperienza sonora prenatale sulla vita dopo la nascita?
Alcune definizioni di musicoterapia e ambiti di applicazione
Alley: “La musicoterapia nelle scuole è l’uso funzionale della
musica per accompagnare i progressi specifici dell’alunno in ambito accademico,
sociale, motorio o linguistico. La musicoterapia per bambini speciali si occupa
dei comportamenti inappropriati o delle disabilità e delle funzioni come
servizio collegato, di supporto, che aiuta i bambini handicappati a trarre
beneficio dall’educazione speciale.”
Alvin: “La musicoterapia è l’uso controllato della musica nel
trattamento, nella riabilitazione, nell’educazione e nella preparazione di
bambini e adulti che soffrono di disturbi fisici, mentali o emotivi”.
Benenzon: “Da un punto di
vista scientifico, la musicoterapia è un ramo della scienza che tratta lo
studio e la ricerca del complesso suono-uomo, sia il suono musicale o no, per
scoprire gli elementi diagnostici e i metodi terapeutici ad esso inerenti. Da
un punto di vista terapeutico, la musicoterapia è una disciplina paramedica che
usa il suono, la musica e il movimento per produrre effetti regressivi e per
aprire canali di comunicazione che ci mettano in grado di iniziare il processo
di preparazione e di recupero del paziente per la società”.
Bruscia: “La
musicoterapia è un processo interpersonale in cui il terapeuta usa la musica e
tutti i suoi aspetti (fisici, emotivi, mentali, sociali, estetici e spirituali)
per aiutare i pazienti a migliorare, recuperare o mantenere la salute. In
alcuni casi i bisogni del paziente sono indagati direttamente attraverso gli
elementi della musica; in altri essi sono sviluppati attraverso i rapporti interpersonali che si
sviluppano tra paziente e terapeuta o gruppo. La musica usata in terapia può
essere direttamente creata dal terapeuta o dal paziente o può trarre spunto dai
vari stili e periodi della letteratura esistente”. Peters: La musicoterapia è
“l’uso prescritto, strutturato della musica o delle attività musicali sotto la
direzione di personale opportunamente preparato (ad es. musicoterapeuti) per
indurre cambiamenti in situazioni o in modelli di comportamenti maladattivi,
aiutando quindi i clienti a raggiungere gli scopi terapeutici”.
Priestley:“La Musicoterapia
Analitica è l’uso simbolico della musica improvvisata dal musicoterapeuta e dal
cliente per esplorare la vita interiore del cliente ed offrire una spinta alla
crescita”.
Associazione Australiana per la Musicoterapia: “La musicoterapia è
l’uso pianificato della musica al fine di ottenere risultati terapeutici con
bambini ed adulti che hanno speciali esigenze a causa di problemi emotivi,
sociali, fisici o intellettuali”.
NAMT : “ La
musicoterapia è l’uso specialistico della musica a servizio di persone con
bisogni nel campo della salute mentale, fisica, di abilitazione, riabilitazione,
educazione speciale. Il fine è quello di aiutare gli individui ad ottenere e
mantenere il loro massimo livello di funzionalità”.
Ogni definizione rimanda a
orientamenti teorico-metodologici diversi in cui sono generalmente presenti i
vari aspetti che caratterizzano l’esperienza sonora, con differenze più o meno
significative rispetto al peso delle componenti sonoro-musicali e relazionali,
al trattamento e alla sua valutazione.
Una definizione, frutto di
condivisione di punti di vista ragionati, è quella che la Comunità
Internazionale ha dato in occasione dell’VIII Congresso Mondiale di Amburgo nel
1996, sotto il patrocinio della World Federation of Music Therapy:
“La
Musicoterapia è l’uso della musica e/o
dei suoi elementi (suono, ritmo, melodia e armonia) per opera di un
musicoterapista qualificato, in rapporto individuale o di gruppo, all’interno
di un processo definito per facilitare e promuovere la comunicazione, le
relazioni, l’apprendimento, la mobilizzazione, l’espressione, l’organizzazione ed
altri obiettivi terapeutici degni di rilievo nella prospettiva di assolvere i
bisogni fisici, emotivi, mentali, sociali e cognitivi.
La
Musicoterapia si pone come scopo di sviluppare potenziali e/o riabilitare
funzioni dell’individuo in modo che egli possa ottenere una migliore
integrazione sul piano intrapersonale e/o interpersonale e, conseguentemente,
una migliore qualità della vita attraverso la prevenzione, la riabilitazione o
la terapia”.
Sempre facendo riferimento alla
molteplicità di orientamenti teorico-metodologici è interessante conoscere la
posizione a livello mondiale in proposito.
Il IX Congresso Mondiale di
Musicoterapia, svoltosi a Washington, ha riconosciuto legittima cittadinanza a
cinque modelli internazionali, all’interno dei quali si distinguono delle macro
categorie a seconda del tipo di comunicazione usato (verbale/non verbale),
degli approcci privilegiati (direttivo/non direttivo), della metodologia
(attiva/recettiva):
- Musicoterapia di Immaginazione Guidata e Musica (GIM appr. recettivo)
- Musicoterapia Comportamentista (MTBe appr. recettivo)
- Musicoterapia Creativa (MTNR appr. attivo)
- Musicoterapia Analitica (MTA appr. attivo)
- Musicoterapia Benenzon (MTB appr. attivo)
Attualmente gli ambiti in cui viene maggiormente
utilizzata la musicoterapia sono quello terapeutico, quello
formativo/preventivo e quello riabilitativo.
In ambito terapeutico essa può avere come
destinatari pazienti con Disturbi
generalizzati dello sviluppo, Disturbo da deficit di attenzione e iperattività,
Disturbi correlati all’uso di sostanze, Disturbi psicotici, Disturbi
dell’umore, Disturbi d’ansia.
Come intervento riabilitativo può essere
efficacemente utilizzata per il trattamento di Disturbi della comunicazione, Disabilità motorie con danno cerebrale,
Ritardo mentale e demenze, Stati comatosi, Stati oncologici e terminali
Destinatari dell’ambito
formativo/preventivo possono essere Donne
in stato di gravidanza, Bambini in
primissima infanzia, Bambini che frequentano i primi anni di scuola, Genitori e
Insegnanti
Il modello della musicoterapia Benenzon
Tra i vari modelli riconosciuti a
livello mondiale mi soffermo su quello che fa capo a Rolando Benenzon,
psichiatra e musicoterapeuta argentino grazie al quale la musicoterapia ha
fatto importanti passi nella direzione della scientificità.
Dalla lettura di alcune sue
pubblicazioni emerge in modo netto l’attenzione all’uomo considerato nella sua
totalità piuttosto che nell’aspetto parziale legato alla patologia.
Benenzon in un’intervista [1]
rilasciata qualche anno fa, pone l’accento sulla dimensione relazionale del
trattamento musicoterapico, che considera a tutti gli effetti un intervento di
natura psicoterapeutica. Perciò in quest’ottica il suono, la musica, il corpo,
lo strumento corporeo-musicale non vanno visti secondo un processo causale, non
vanno cioè considerati quali produttori di effetti sul corpo o sulla mente del
paziente, ma quali agenti intermediari che possono determinare cambiamenti in
un processo relazionale.
L’approccio benenzoniano,
caratterizzato dall’impiego attivo della tecnica musicoterapica, mira
all’acquisizione da parte del paziente di nuove modalità di comunicazione
funzionali al miglioramento qualitativo della sua vita. Un elemento
caratterizzante la MTB è il contesto terapeutico non verbale in cui
interagiscono dinamicamente vari codici, linguaggi e messaggi che vanno a
stimolare il sistema percettivo globale dell’essere umano, favorendo in lui il
riconoscimento del mondo circostante, del suo ambiente, dell’altro essere umano
con cui entra in relazione[2].
Benenzon sottolinea anche l’importanza della memoria del non verbale, che si
forma nel tempo per via filogenetica e ontogenetica, senza la quale non ci
sarebbe possibile riconoscere ciò che ci circonda e, quindi, non potremmo
neanche comunicare. Grazie al fatto che il contesto non verbale limita la messa
in atto di meccanismi di difesa, propri invece dei contesti verbali, diventa
possibile il ricordo delle primissime esperienze di vita relazionale risalenti
alla comunicazione intrauterina, già ampiamente descritta nel secondo capitolo.
Ecco allora che diventa chiaro l’obiettivo di produrre movimenti regressivanti
che favoriscano una comunicazione più efficace.
[1]A. Raglio, Intervista
a R.O.Benenzon in Quaderni del
Servizio/Laboratorio di Psicologia Clinica n°1,
a cura di O. Oasi, Università Cattolica, Milano, 2002.
[2] Benenzon-De Gainza –
Wagner, La nuova musicoterapia, Phoenix,
Roma, 1997.
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